Gli psicofarmaci sono sostanze che agiscono influenzando l’attività psichica. Sono utilizzati generalmente per combattere problematiche, spesso invalidanti, quali ansia, depressione, maniacalità e psicosi.
Classificazione degli psicofarmaci
Uno dei primi problemi che si incontrano parlando degli psicofarmaci è quello relativo alla loro classificazione. Esistono diverse modalità per classificarli, ma non sempre i vari autori sono perfettamente allineati.
Una prima classificazione è quella di tipo chimico; in base a questo criterio gli psicofarmaci vengono suddivisi in base alla loro struttura.
Questo tipo di classificazione è considerato poco utile in quanto nello stesso gruppo chimico si possono trovare farmaci la cui azione terapeutica è molto diversa. È per esempio il caso delle fenotiazine, sostanze a cui appartengono sì psicofarmaci, ma anche farmaci ad azione antistaminica, farmaci antinausea, farmaci antispastici ecc.
Un’altra modalità di classificazione degli psicofarmaci è quella che segue criteri farmacologici; anche questa classificazione, basata sulla correlazione fra il meccanismo d’azione del farmaco e l’effetto clinico che si osserva, non è frequentemente usata.
La classificazione utilizzata dalla stragrande maggioranza degli addetti ai lavori è invece quella clinica.
Il primo proporre una classificazione di tipo clinico fu lo psichiatra francese Jean Delay che suddivise gli psicofarmaci in:
- farmaci psicolettici
- farmaci psicoanalettici
- farmaci psicodislettici.
Sono comprese nei farmaci psicolettici tutte quelle sostanze che agiscono sedando il sistema nervoso centrale (ipnotici, ansiolitici, neurolettici e regolatori dell’umore).
Rientrano nei farmaci psicoanalettici tutte quelle sostanze che sono in grado di elevare il tono psichico (antidepressivi e nootropi; questi ultimi sono noti anche come smart drugs).
Sono invece considerate farmaci psicodislettici tutte quelle sostanze che alterano, perturbandolo, il tono psichico (allucinogeni, stupefacenti e inebrianti).
Attualmente, la classificazione maggiormente utilizzata in psicofarmacologia è quella che distingue gli psicofarmaci in quattro grandi categorie:
- ansiolitici
- antidepressivi
- neurolettici (antipsicotici)
- stabilizzatori dell’umore.
Ansiolitici
Gli ansiolitici (popolarmente noti come tranquillanti) sono una classe di farmaci in grado di controllare gli stati ansiosi in soggetti nevrotici o in soggetti sani sottoposti a particolari e inusuali condizioni di stress; gli ansiolitici trovano vasto impiego anche come sonniferi e nella pratica anestesiologica. Quelli attualmente più diffusi si distinguono in:
- Benzodiazepine
- Barbiturici
- Antidepressivi
- Betabloccanti.
Per approfondire l’argomento rimandiamo comunque all’articolo specifico, Ansiolitici.

Le benzodiazepine sono i farmaci più diffusi nella categoria degli ansiolitici
Antidepressivi
Gli antidepressivi sono psicofarmaci utilizzati in caso di depressione o di altre patologie legate a variazioni abnormi dell’umore. Anche per quanto riguarda questa categoria, vista la sua notevole importanza, rimandiamo all’articolo che tratta l’argomento nel dettaglio: Antidepressivi.
Neurolettici
I neurolettici (noti anche come antipsicotici) sono farmaci che esplicano una notevole azione sedativa del sistema nervoso centrale; agiscono regolando i livelli di diverse sostanze che sono presenti a livello cerebrale (dopamina, noradrenalina, serotonina ecc.).
Si è soliti classificare questa categoria di psicofarmaci in antipsicotici di prima generazione (antipsicotici tipici), antipsicotici di seconda generazione (antipsicotici atipici) e antipsicotici di terza generazione (antipsicotici atipici di terza generazione); i primi (aloperidolo, clorpromazina, clotiapina ecc.) sono stati scoperti più di mezzo secolo fa, mentre i secondi e i terzi (clozapina, risperidone, amisulpride, olanzapina, quetiapina, aripiprazolo, paliperidone ecc.) sono stati scoperti a partire dai primi anni ’90 del XX secolo (non la clozapina però, scoperta circa vent’anni prima).
Gli antipsicotici non sono scevri da numerosi e importanti effetti collaterali e, a tutt’oggi, è ancora particolarmente acceso il dibattito se gli antipsicotici di nuova generazione siano da considerarsi maggiormente efficaci e sicuri rispetto agli altri.
Stabilizzatori dell’umore
Gli stabilizzatori dell’umore sono psicofarmaci che vengono somministrati in quanto ritenuti in grado di controllare determinate condizioni mentali patologiche che sono caratterizzate da notevoli oscillazioni dell’umore (disturbo affettivo bipolare, disturbo dell’umore bipolare, disturbo maniaco-depressivo ecc.).
I principi attivi di questa categoria che sono utilizzati maggiormente sono i sali di litio (che trattiamo nel paragrafo successivo), la carbamazepina e il valproato di sodio. Molti di questi farmaci appartengono alla categoria dei farmaci antiepilettici.
Anche gli stabilizzatori dell’umore, come del resto tutti gli altri psicofarmaci, possono essere causa di importanti effetti collaterali.
I sali di litio e il disturbo bipolare
Un breve cenno va ai sali di litio che sono ancora oggi considerati la terapia standard per il trattamento del disturbo bipolare (terminologia preferita a psicosi maniaco-depressiva), nonostante ne siano stati riconosciuti i limiti di utilizzo e la disponibilità di nuove molecole alternative.
Il più comune sale di litio utilizzato nel trattamento del disturbo bipolare è il litio carbonato; viene prescritto sia per controllare la fase acuta maniacale, sia come terapia di mantenimento e di prevenzione delle ricadute; il farmaco non guarisce la patologia, ma agisce bloccando, o comunque riducendo, la ciclicità degli episodi. I sali di litio prevedono assunzioni a lungo termine, per diversi anni, anche quando il soggetto si sente bene, la sintomatologia e scomparsa e l’umore è rientrato nella norma. Una sospensione precoce e brusca incrementa in modo notevole la probabilità che gli episodi depressivi e quelli maniacali si ripresentino. Dopo la sospensione della terapia, si calcola un rischio del 50% di ricaduta nel giro di sei mesi. In alcuni casi, peraltro, i soggetti che hanno sospeso il trattamento non hanno più benefici una volta che la terapia è stata ripresa.
Le terapie a base di sali di litio non hanno effetti immediati; i miglioramenti sono graduali e tendono a stabilizzarsi nel giro di alcuni mesi; è per questo motivo che in molti casi i medici prescrivono anche altri psicofarmaci. L’obiettivo comunque è quello di ridurre il ricorso ad altri medicinali lasciando solo la terapia stabilizzante a base di sali di litio.
Vi sono diversi farmaci che possono aumentare la concentrazione plasmatica dei sali di litio; se l’assunzione è saltuaria, di norma non vi sono problemi di sorta; in caso di terapie prolungate, solitamente si rende necessario un aggiustamento dei dosaggi del litio; questo perché, sfortunatamente, i sali di litio hanno una finestra terapeutica abbastanza ridotta; praticamente, se rimangono sotto certi livelli, non sono efficaci, se invece li superano possono avere effetti collaterali piuttosto spiacevoli e, in alcuni casi, anche gravi.

Il consumo di psicofarmaci è di circa 40 dosi giornaliere ogni mille abitanti
Gli psicofarmaci sono utili?
Ci sono molti modi di barare sull’efficienza del corpo e quindi sul proprio stato di salute: convincersi che qualche chilo di troppo non fa danno perché se ci si mette a dieta ci si sente male, credere di essere grandi sportivi perché si suda una volta alla settimana su un campo da tennis, pensare che “Semel in anno licet insanire”, concedendosi qualche abbondante libagione, dare la colpa alle scale troppo ripide se si arriva al secondo piano con un fiatone incredibile ecc. Queste sono tutte bugie innocenti, alle quali si può sempre porre rimedio, basta volerlo. Ne esistono altre invece che possono avere risvolti anche drammatici. Sono quelle per cui si pensa di migliorare la propria efficienza con l’uso continuo di farmaci che non risolvono in realtà la situazione. È questo il caso degli psicofarmaci.
Gli insuccessi – Checché ne dica la medicina ufficiale, gran parte delle malattie della psiche sono ancora “incurabili”, soprattutto se si considera la legge di guarigione totale. Gli insuccessi della medicina tradizionale hanno lasciato ampio spazio alle medicine alternative che hanno però fallito anch’esse miseramente, non smettendo però di promettere mare e monti contro depressione, ansia, fobie ecc.
Lo stato attuale – Per spiegare perché parliamo di insuccesso consideriamo che attualmente esistono quattro tipi di pazienti:
- quelli che per tutta la vita assumono psicofarmaci; qui l’insuccesso è palese.
- Quelli che assumono psicofarmaci a periodi, con ricadute più o meno gravi. Anche qui l’insuccesso è evidente; lo psicofarmaco allevia la condizione, è spesso sintomatico, senza che riesca a rimuovere (e spesso i medici stessi non le trovano) le vere cause del problema.
- Quelli che hanno solo pochi episodi patologici nella propria vita e che si portano in un livello di pseudonormalità. È il caso di chi esce da una depressione, rimanendo però sostanzialmente una persona predisposta, con un tono dell’umore spesso basso e con una qualità della vita tutto sommato mediocre. Anche in questo caso l’intervento farmacologico non può ascrivere a sé il successo, poiché nulla impedisce di credere che il soggetto sia risalito sopra la soglia che delimita la normalità solo per l’effetto tempo e per l’effetto (sintomatico, non curativo) dei farmaci o delle psicoterapie.
- Quelli che hanno un solo episodio patologico, risolto il quale ritornano del tutto normali. Anche qui l’intervento farmacologico non può ascrivere a sé il successo perché in genere si tratta di persone che hanno capito i loro problemi e hanno mutato la loro vita. Questo mutamento di vita è la vera soluzione. Bisogna però riconoscere che l’intervento farmacologico ha avuto il merito di consentire al paziente di avere la lucidità per attuare il cambiamento.
Le psicoterapie – Parallelamente alla psichiatria farmacologica e alle medicine alternative si collocano le psicoterapie, anch’esse spesso troppo facili alle promesse. Anche per le psicoterapie si possono definire i quattro tipi fondamentali e si possono dare gli stessi giudizi sulle reali o presunte guarigioni. Sicuramente la psicoterapia può parlare di successo nel caso di soggetti di tipo D.
Dalla parte del medico – Come dovrebbe operare il medico? Innanzitutto cercare di identificare la tipologia del paziente; troppo spesso pazienti di tipo A vengono inizialmente curati come pazienti di tipo D. Una volta identificato il tipo, identificare la soluzione più idonea:
Tipo A – Indirizzare il paziente verso strutture avanzate in cui si provano nuovi farmaci. L’obiettivo è portare il paziente almeno in stato B. L’errore è curare il paziente con farmaci e metodi tradizionali che si sono già dimostrati insufficienti per i casi di tipo A.
Tipo B – Evitare facili euforie nei casi di miglioramento e far capire al paziente che è proprio questo il momento di continuare nell’aggressione della patologia per debellarla totalmente, passando a uno stato C. L’errore è quello di accettare di assecondare un paziente che si convince che gli psicofarmaci lo hanno fatto uscire da una situazione terribile, non accorgendosi che si tratta di una persona fragile che fra poco ricadrà nel baratro.
Tipo C – Affiancare a terapie farmacologiche anche un supporto psicoterapeutico, far capire al paziente che non è sufficiente guarire, ma che può ambire a una migliore qualità della vita, spiegare il concetto che
non essere felici è essere un po’ malati.
Tipo D – Nel caso il medico si accorga che la patologia sia del tutto provvisoria (magari causa di un evento scatenante, ma che il tempo comunque diluirà, essendo il soggetto del tutto normale), far presente che l’uso degli psicofarmaci è del tutto limitato e temporaneo.
Dalla parte del paziente – Tralasciando la tipologia A (dove spesso non esiste la lucidità per poter decidere autonomamente cosa sia meglio fare), in tutti gli altri casi il paziente deve convincersi che, se non cambia qualcosa nella propria vita, gli psicofarmaci non potranno che dargli fragili momenti di quiete, che potrà scambiare per serenità solo perché è cessato il dolore. Non deve cioè fare come chi ha male a un dente e, invece di andare dal dentista e curarlo definitivamente, si ostina a prendere forti analgesici per non sentire il dolore.